In quel momento scorsi Claudel avanzare nella nostra direzione stringendo in mano una busta di plastica per gli indizi. Giuro che se ha il coraggio di dirmi qualcosa gli spacco la faccia, pensai. Facevo sul serio.

«Desolato», mormorò infatti, evitando di incrociare il mio sguardo. Poi, a Ryan: «Qui abbiamo quasi finito».

Ryan inarcò le sopracciglia e Claudel gli rispose con un cenno della testa. Ne parliamo più tardi, mi parve dire.

Il cuore prese a battermi più forte. «Cosa c'è? Che cosa avete trovato?» Ryan mi posò le mani sulle spalle.

Lanciai un'occhiata alla busta che Claudel stringeva e vidi un guanto di lattice color crema coperto di macchie marroni. Dal polso spuntava l'angolo di un oggetto piatto e rettangolare. Bordo bianco, sfondo scuro. Un'istantanea. Le mani di Ryan mi strinsero. Lo guardai, muta e interrogativa, temendo già la sua risposta.

«Perché non ci pensiamo dopo, eh?»

«Voglio vederla.» Sollevai una mano tremante.

Claudel ebbe un attimo di esitazione, quindi mi porse la busta. La presi. Attraverso la plastica pizzicai un dito del guanto e lo usai per dare dei colpetti e far scivolare fuori la foto. Riorientai la busta e guardai.

Due figure a braccetto, capelli svolazzanti, e imponenti cavalloni sullo sfondo La paura mi attanagliò all'istante. Sentii il mio respiro farsi rapido e breve. Calma. Devi restare calma.

Myrtle Beach, 1992. Io. Katy. Quella belva aveva sepolto una foto di mia figlia insieme alla mia amica assassinata.

Nessuno fiatava. Vidi Charbonneau avvicinarsi dal luogo del ritrovamento e lanciare un'occhiata a Ryan, che annuì. I tre uomini erano ammutoliti, nessuno sapeva cosa dire o cosa fare e io non ero certo dell'umore giusto per aiutarli. Fu Charbonneau a rompere il silenzio.

«Andiamo a prendere quel figlio di puttana.»

«E il mandato?» Ryan.

«Ce lo porterà Bertrand. L'hanno spiccato appena abbiamo trovato... il corpo.» Rapida occhiata nella mia direzione.

«Il nostro uomo è in casa?»

«Da quando hanno piantonato l'edificio non è entrato né uscito nessuno. Sarà meglio non perder tempo.»

«D'accordo.»

Ryan si girò verso di me. «Stamattina il giudice Tessier ha deciso che ci sono indizi sufficienti e ha emesso un mandato. Andiamo ad arrestare il tizio che ha seguito giovedì sera. La riaccompagnerò...»

«Se lo scordi. Vengo anch'io.»

«Brennan...» Non mi chiamava già più per nome.

«Nel caso se ne fosse dimenticato, poco fa ho ufficialmente riconosciuto il cadavere di una mia amica. Aveva addosso una foto mia e di mia figlia. Forse a ucciderla è stato lui, forse un altro psicopatico, non lo so, comunque ho tutte le intenzioni di scoprirlo e sono disposta a qualunque cosa pur di fargliela pagare. Non gli darò tregua finché non l'avrò inchiodato, Ryan, con o senza di lei e la sua banda di prodi cavalieri.» Gli puntavo contro un dito rigido come un pistone idraulico. «Ci sarò anch'io. A partire da ora.»

Mi bruciavano gli occhi e il petto cominciava a sollevarsi e riabbassarsi con troppa foga. Non piangere. Non osare metterti a piangere. Ancora una volta mi obbligai a ritrovare la calma. Ancora una volta era calato il silenzio.

«Allons-y», sbottò infine Claudel. Andiamo.

 

35

 

A mezzogiorno la temperatura e il tasso di umidità nell'aria avevano letteralmente messo in ginocchio la città. Non si muoveva nulla. Paralizzati dal calore, alberi, uccelli, insetti ed esseri umani cercavano di bruciare meno energie possibile e se ne stavano rintanati all'ombra.

Il viaggio in macchina mi parve la fotocopia esatta di quello del giorno di Saint-Jean-Baptiste: silenzio teso, aria condizionata mista a effluvi di sudore, stomaco serrato dalla paura. Mancava solo la scontrosità di Claudel. Lui e Charbonneau ci avrebbero raggiunti sul posto.

In realtà anche il traffico era diverso. Dirigendoci in Rue Berger avevamo dovuto lottare contro una marea in festa, oggi invece sfrecciavamo attraverso strade deserte e in meno di venti minuti parcheggiammo nei pressi della casa. Appena girato l'angolo vidi Bertrand, Charbonneau e Claudel seduti a bordo di un'autocivetta, dietro cui era parcheggiata la volante di Bertrand. Il furgone» della Scientifica era in fondo all'isolato, con Gilbert al volante e un assistente accasciato contro il finestrino del passeggero.

Mentre ci avvicinavamo i tre investigatori scesero. La via era esattamente come la ricordavo, nonostante alla luce del giorno apparisse ancora più anonima e trascurata. Mi sentivo la maglietta incollata alla pelle.

«Dov'è l'unità di piantonamento?» esordì Ryan a mo' di saluto.

«Sul retro.» Charbonneau.

«Lui è in casa?»

«Da mezzanotte in poi non hanno registrato alcun segno di attività. Forse sta ancora dormendo.»

«Entrate posteriori?»

Charbonneau annuì. «Una. Anche quella è rimasta sempre sotto sorveglianza. Abbiamo piazzato due unità ai capi dell'isolato, più una sulla Martineau.» Indicò con il pollice il lato opposto della strada. «Se è lì, non può andare da nessuna parte.»

Ryan si rivolse a Bertrand. «Hai il mandato?»

Cenno di assenso. «1436 Séguin. Appartamento 201. Prego.» Con un gesto invitò un pubblico immaginario a prendere posto per lo spettacolo.

Per un attimo restammo immobili dov'eravamo, squadrando l'edificio come per prendere le misure a un avversario, preparandoci all'assalto e alla cattura. All'improvviso due ragazzini di colore girarono l'angolo e avanzarono verso di noi armati di una radio gigantesca da cui uscivano le note di un pezzo rap. Indossavano Air Jordan e pantalonacci larghi formato famiglia. Le T-shirt immortalavano totem di violenza: un cranio con bulbi oculari fusi e la Signora con la falce sotto un ombrellone da spiaggia. Quando la morte è in vacanza. Il più alto dei due si era rasato la testa, risparmiando solo un'aiuola ovale proprio al centro e alla sommità dello scalpo. L'altro aveva i dreadlock.

Flash dei riccioli di Gabby. Fitta di dolore.

Dopo. Non adesso, per carità. Con un supremo atto di volontà mi constrinsi a concentrarmi sul qui e ora.

Osservammo i due giovani entrare in un edificio vicino, e con il richiudersi di una porta cessò anche la musica. Ryan lanciò un'occhiata a destra e a sinistra, poi ci guardò.

«Pronti?»

«Quel figlio di puttana ha i minuti contati.» Claudel.

«Luc, tu e Michel piazzatevi sul retro. Se cerca di scappare, stendetelo.»

Claudel strizzò gli occhi e inclinò la testa come per dire qualcosa, poi la scosse ed espirò forte dal naso. Stavano già allontanandosi, quando la voce di Ryan li fece girare.

«Voglio un'azione da manuale.» Sguardo duro. «Non ammetto errori.»

I due investigatori CUM attraversarono la via e scomparvero dietro la casa.

Quindi si voltò dalla mia parte.

«Pronta?»

Annuii.

«Potrebbe essere lui.»

«Lo so.»

«Se la sente?»

«Cristo, Ryan...»

«Andiamo, allora.»

Mentre salivamo i gradini di ferro sentii la paura dilatarmisi nel petto. Il primo portone era aperto. Entrammo in un piccolo ingresso di piastrelle sporche. Sulla parete di destra erano allineate le caselle della posta e sul pavimento sottostante giaceva sparso un tappeto di volantini. Bertrand provò con la controporta interna. Aperta anche quella.

«Posticino sicuro», fu il suo commento.

Ci ritrovammo così in un corridoio fiocamente illuminato, dove mancava l'aria e aleggiava una forte puzza di fritto. Una moquette sfilacciata correva per tutta la sua lunghezza, fissata a intervalli regolari da sottili bacchette metalliche e protetta da una passatoia di plastica ormai sporca e opaca. In fondo a destra, la moquette si arrampicava su per le scale.

Salimmo fino al secondo piano, accompagnati dai piccoli tonfi secchi dei nostri piedi sulla plastica. L'appartamento 201 era di nuovo sulla destra. Ryan e Bertrand si piazzarono ai due lati della porta di legno scuro, spalle al muro, giubbotto slacciato, la mano sulla pistola.

Ryan mi fece segno di raggiungerlo e di mettermi dietro di lui. Mi appiattii contro la parete, le asperità dell'intonaco che mi pizzicavano i capelli. Inspirai profondamente, inalando polvere e muffa. E l'aroma del suo sudore.

Cenno di Ryan a Bertrand. Sentii la paura arrivarmi alla gola.

Bertrand bussò.

Niente.

Ribussò.

Nessuna risposta.

Li vidi irrigidirsi. Il mio respiro si fece più affannoso.

«Polizia. Aprite.»

Una porta si aprì piano in fondo al ballatoio. Attraverso la fessura lasciata dalla catenella di sicurezza, un paio d'occhi ci spiò.

Bertrand bussò più forte, cinque colpi in rapida successione. Silenzio.

Poi: «Monsieur Tanguay n'est pas ici».

Le nostre teste si voltarono all'unisono nella direzione della voce sottile e acuta.

Ryan fece segno a Bertrand di restare dov'era e si diresse verso la porta socchiusa. Lo seguii. Le iridi ingrandite da spesse lenti d'occhiali ci guardavano galleggiando a poco più di un metro da terra e puntavano sempre più verso l'alto mano a mano che ci avvicinavamo.

Continuarono a spostarsi irrequiete da Ryan a me, in cerca del punto d'atterraggio meno minaccioso, finché Ryan si accoccolò per affrontarle da un pari livello.

«Bonjour», disse.

«Ciao.»

«Comment ça va?»

«Ça va.»

Il bimbo aspettava. Difficile dire se era un maschio o una femmina.

«La tua mamma è in casa?»

Un no con la testa.

«E il papà?»

«No.»

«Sei solo?»

«Voi chi siete?»

E bravo bambino. Mai dare troppa confidenza agli estranei.

«Poliziotti.» Ryan gli mostrò il distintivo. I due occhi si fecero ancora più grandi.

«State cercando il signor Tanguay?»

«Esatto. Proprio lui.»

«Perché?»

«Dobbiamo solo rivolgergli qualche domanda. Tu lo conosci bene?»

Annuì ma non disse nulla.

«Come ti chiami?»

«Mathieu.» Maschio.

«Quando torna la tua mamma, Mathieu?»

«Io sto con la mia nonna.»

Un'articolazione scrocchiò rumorosamente mentre Ryan appoggiava un ginocchio a terra, puntava un gomito sull'altro e, continuando a fissare Mathieu, posava il mento sulle nocche.

«E quanti anni hai?»

«Sei.»

«Da quanto tempo abiti qui?»

Il bimbo parve confuso, come se per lui nella vita fosse esistita solo quella possibilità.

«Abito qui sempre.»

«E conosci il signor Tanguay?»

Mathieu annuì.

«Lui da quanto vive qui?»

Alzata di spalle.

«Senti, Mathieu, la tua nonna quando torna?»

«Pulisce nelle case.» Pausa. «Sabato.» Levata d'occhi al cielo. Mordicchiamento di labbro inferiore. «Aspetta.» Scomparve all'interno e in meno di un minuto era di ritorno. «Alle tre e mezzo.»

«Mer... meraviglioso!» esclamò Ryan, rimettendosi in piedi. Poi, a me, in poco più di un sussurro preoccupato: «Abbiamo un ragazzino incustodito a un tiro da quell'animale».

Mathieu lo guardava fisso come un gatto che ha appena chiuso il topo nell'angolo.

«Il signor Tanguay non c'è», ripeté.

«Sei sicuro?» Ryan tornò ad accoccolarsi.

«È partito.»

«Per dove?»

Altra alzata di spalle. Un dito grassoccio rispinse gli occhiali a cavallo del naso.

«Come fai a sapere che è partito?»

«Perché do da mangiare ai pesci.» Un sorriso largo come il Mississippi gli illuminò il faccino. «Ha i tetra, i pesci angelo e i nuvolabianca. Sono fantastici!» Fantastique! Una parola dal suono perfetto. L'equivalente inglese non rende giustizia.

«E sai quando torna il signor Tanguay?»

Stretta di spalle.

«La nonna non l'ha scritto sul calendario?» mi intromisi.

Il bimbo mi guardò, sopreso, quindi scomparve di nuovo all'interno.

«Che calendario?» Ryan.

«Devono averne uno. Prima per sapere quando tornava la nonna oggi è entrato a controllare qualcosa.»

Mathieu ricomparve. «No.»

Ryan si alzò. «E adesso?»

«Se il ragazzo ha ragione, entriamo e perquisiamo la casa. Adesso abbiamo anche un nome. Lo rintracceremo. Può darsi che la nonna sappia dov'è andato, e se non lo sa lo prenderemo comunque appena rimetterà piede qui.»

Ryan guardò Bertrand e indicò la porta.

Altri cinque colpi.

Niente.

«Sfondiamo?»

«Il signor Tanguay non sarà contento.»

Occhi puntati sul bambino.

Per la terza volta Ryan si chinò.

«Quando fai una cosa che non vuole si arrabbia moltissimo.»

«Capisco, ma è davvero importante. Dobbiamo assolutamente trovare una cosa nel suo appartamento.»

«Sì, ma non sarà contento se sfondate la porta.»

Raggiunsi Ryan e a mia volta sedetti sui talloni.

«Dimmi, Mathieu: i pesci del signor Tanguay li tieni qui?»

Cenno negativo del capo.

«Allora hai la chiave di casa sua?»

Cenno affermativo.

«Non potresti farci entrare un momento?»

«No.»

«Perché?»

«Non posso uscire quando la nonna non c'è.»

«Bravo, Mathieu, fai bene. La nonna vuole che tu stia in casa perché così sei più al sicuro. Ha ragione, e tu fai molto bene a ubbidirle.»

Il Mississippi tornò a straripare.

«Credi che potremmo usarla da soli, quella chiave? Solo per qualche minuto. È una questione di polizia molto importante, ma in effetti il tuo consiglio è giusto: non è bello che gli sfondiamo la porta.»

«Credo di sì», rispose. «Perché siete dei poliziotti.»

Dopo essersi di nuovo tuffato dove il nostro sguardo non poteva seguirlo, Mathieu si ripresentò con una chiave. Me la porse attraverso la fessura, guardandomi intensamente a labbra serrate.

«Non sfondate la porta.»

«Faremo molta attenzione. Promesso.»

«E non andate in cucina. Non si può. Non si deve andare in cucina.»

«Bene. Tu ora chiudi a chiave la porta e aspettaci dentro. Quando avremo finito busseremo, ma prima di allora non aprire.»

Il faccino annuì con aria solenne e scomparve dietro il battente.

Tornammo da Bertand, che riprovò a bussare. Aprite, polizia. Dopo una pausa carica di tensione, Ryan annuì e io infilai la chiave nella serratura.

La porta si spalancò su un piccolo soggiorno dominato dai toni del marrone. Due pareti erano occupate da librerie a soffitto, le altre erano rivestite di legno scurito da innumerevoli verniciature. Tendaggi di velluto rosso ammaccato pendevano ai lati delle finestre, raddoppiati da pizzi ormai grigi che impedivano alla luce di filtrare. Restammo immobili e in silenzio, ascoltando e scrutando la stanza in penombra.

L'unico suono udibile era un ronzio vago e irregolare, come di scarica elettrica in un circuito difettoso. Bzzt. Bzzzzt. Bzt. Bzt. Arrivava da dietro una porta a doppio battente, un po' più avanti e sulla sinistra. Per il resto, la casa era sprofondata in una quiete mortale.

Bell'aggettivo, Brennan, ottima scelta.

Più mi guardavo intorno, più dall'oscurità vedevo emergere sagome di mobili vecchi e consumati. Al centro del soggiorno si trovava un tavolo di legno con relative sedie, mentre nel vano della finestra a bovindo c'era un divano mezzo sfondato con sopra una coperta messicana. Di fronte, un vecchio baule fungeva da supporto a un Sony Trinitron.

Sparsa per la stanza notai una varietà di vetrinette e tavolini di legno, alcuni dei quali molto graziosi e sul genere di pezzi che io stessa avevo scovato curiosando al mercato delle pulci. Dubitavo però che quella fosse la loro vera origine, e che fossero stati acquistati come occasioni da risistemare; piuttosto sembravano trovarsi lì da anni, ignorati e incompresi da generazioni di inquilini.

Sul pavimento era steso un vecchio dhurrie e dappertutto c'erano piante: incastrate negli angoli, appese a ganci e allineate su assi di legno. Le carenze negli arredi erano state ampiamente compensate con il verde e con abbondanti cascate di foglie che sgorgavano da vasi a parete, dai davanzali, dai tavoli, dagli scaffali.

«Sembra un fottuto giardino botanico», osservò Bertrand.

E che odore, pensai io. L'aria sapeva di muffa, di un misto di foglie, funghi e terra umida.

Dirimpetto all'entrata un breve corridoio conduceva a un'unica porta chiusa. Con lo stesso gesto di poco prima Ryan mi ordinò di restargli dietro, quindi cominciò a scivolare lungo il muro, ginocchia flesse e spalle incassate, la schiena aderente alla parete. Lentamente raggiunse la porta, si bloccò un istante e infine sferrò un calcio deciso contro il legno.

La porta si spalancò con violenza, colpendo il muro e rimbalzando di nuovo in avanti, per poi fermarsi a metà corsa. I miei sensi in allerta cercarono subito di cogliere il minimo movimento o rumore, il cuore che batteva al ritmo irregolare della scarica elettrica. Bzzzzzzt. Bzt. Bzt. Bzzzzt. Tututum. Tum. Tutum.

Da dietro la porta semiaperta filtrava un bagliore sinistro accompagnato da un gorgoglio.

«Abbiamo trovato i pesci», annunciò Ryan, varcando la soglia.

Servendosi di una penna fece scattare l'interruttore, e luce fu. Classica camera. Letto singolo, copriletto stampato con motivi indiani. Comodino, lampada, sveglia, spray nasale. Cassettiera, senza specchio. Bagno minuscolo annesso. Una finestra. Tende pesanti che nascondevano alla vista un muro di mattoni.

L'unico elemento insolito erano le vasche da acquario che tappezzavano la parete di fondo. Mathieu aveva ragione. Erano fantastique. Azzurri elettrici, gialli sgargianti e righe bianche e nere sfrecciavano dentro e fuori da labirinti di corallo rosa e bianco, tra alghe di ogni verde immaginabile. Ciascuno di quei piccoli ecosistemi era illuminato da lampade color acquamarina e massaggiato da un concerto di bollicine d'ossigeno.

Ipnotizzata, osservavo lo spettacolo e percepivo il vago formarsi di un'idea. Forza, Brennan. Ma cosa? I pesci? Cosa? Niente.

Intorno a me Ryan si muoveva e con la penna scostava la tenda della doccia, apriva l'armadietto dei medicinali, frugava tra le scatole di cibo e le retine vicino alle vasche. Per aprire i cassetti ricorse al fazzoletto, quindi tornò alla penna e passò in rassegna calzini, camicie, maglioni e mutande.

Lascia perdere i pesci, Brennan. Di qualunque cosa si trattasse, quell'idea era elusiva come le bollicine negli acquali e a ogni tentativo di risalita in superficie svaniva.

«Trovato niente?»

Ryan scosse la testa. «Niente che colpisca a una prima occhiata. Ci penserà la Scientifica. Se esagero sono capaci di offendersi. Controlliamo le altre stanze, poi chiamerò Gilbert. Mi sembra evidente che Tanguay è via. Lo inchioderemo, ma nel frattempo vale la pena di scoprire che altro c'è qui.»

In soggiorno Bertrand stava esaminando il televisore.

«Alta tecnologia», disse. «Al ragazzo piace il giocattolino.»

«Si farà pere di Cousteau», ribatté Ryan in tono distratto, continuando a esplorare la penombra. Questa volta non ci saremmo lasciati cogliere di sorpresa.

Mi avvicinai agli scaffali. C'erano i titoli più svariati e, così come il televisore, i libri sembravano tutti nuovissimi. Ecologia. Ittiologia. Ornitologia. Psicologia. Sesso. Molta scienza, ma il nostro uomo era di gusti eclettici. Buddismo. Scientology. Archelogia. Arte maori. Scultura Kwakiutl. Samurai. Oggetti da collezione della Seconda guerra mondiale. Cannibalismo.

I ripiani contenevano centinaia di volumi ascabili, molti dei quali di letteratura contemporanea in lingua inglese e francese. C'erano anche i miei autori preferiti. Vonnegut, Irving, McMurtry. Nella maggioranza dei casi, però, si trattava di gialli. Omicidi efferati, persecutori e psicopatici violenti, metropoli spietate: avrei potuto fare il riassunto solo guardando le copertine. C'era anche un intero scaffale dedicato alle biografie di assassini rituali e serial killer. Bundy, Manson, Ramirez, Boden.

«Mi sa tanto che Tanguay e Saint-Jacques sono iscritti allo stesso club letterario», commentai.

«Mi sa tanto che questo squilibrato è Saint-Jacques», ribatté Bertrand.

«No, questo è uno regolare», sentenziò Ryan.

«Sì, quando si chiama Tanguay.»

«Se davvero legge questa roba, ha interessi molto vasti. Ed è bilingue.» Altra occhiata alla collezione. «Certo è un bell'ossessivo.»

«Si mette a giocare allo strizzacervelli, adesso?» Bertrand.

«Ehi, guardate.»

Si avvicinarono.

«I libri sono ordinati alfabeticamente per argomento.» Indicai alcuni ripiani. «Quindi di nuovo alfabeticamente per autore all'interno di ciascuna categoria. E infine per anno di pubblicazione di ogni autore.»

«E allora? Lo fanno tutti.»

Ryan e io lo guardammo. Bertrand non era un lettore.

«Notate anche la precisione con cui ciascun libro è allineato sul bordo dello scaffale.»

«Stessa cosa con le calze e le mutande. Probabilmente per metterle via usa una squadra», disse Ryan.

E, poco dopo, fu ancora lui a dar voce ai miei pensieri. «Direi che il profilo calza.»

«Forse tiene i libri solo per fare bella figura. Vuole far credere agli amici di essere un intellettuale», ipotizzò Bertrand.

«Non penso», ribattei. «Primo, non sono impolverati. E poi, quei foglietti gialli: non solo legge, ma mette il segno alle pagine che gli interessano. Bisognerà dirlo a Gilbert e ai suoi uomini, in modo che non li perdano. Potrebbero rivelarsi utili.»

«Farò sigillare i libri prima che li riempiano di polvere per le impronte.»

«Non notate altro?»

Fissarono gli scaffali.

«Sì. Che legge delle belle schifezze.»

«E, a parte i gialli, cosa gli interessa di più?» incalzai. «Osservate bene il ripiano superiore.»

Tornarono a guardare.

«Oh, cazzo.» Ryan. «L'anatomia di Gray. Manuale di anatomia pratica. Atlante anatomico a colori. Principi di dissezione anatomica. Il corpo umano: tavole mediche. Ehi, e questo? Elementi di chirurgia, di un certo Sabiston. È più fornito di una biblioteca di facoltà. Direi che è uno che sa bene com'è fatto il corpo umano.»

«Sì, ma non stiamo parlando solo di conoscenze astratte. Questo ci va giù pesante.»

Ryan prese la radio. «Bene. È venuto il momento di far salire Gilbert. Dirò alla squadra sul retro di piantonare il portone: non vorrei spaventare Mr. Hyde, nel caso tornasse all'improvviso. E a quest'ora Claudel starà scoppiando dalla curiosità.»

Accostò la trasmittente alla bocca, mentre Bertrand continuava a passare in rassegna i titoli.

Bzt. Bzzzzzzt. Bzzt. Bzt.

«Ehi, questo è pane per i suoi denti, dottoressa.» Con il fazzoletto tirò fuori un libro. «Sembra sia l'unico di questo genere.»

Appoggiò sul tavolo un volume di L'antropologo americano, edizione luglio 1993. Nessun bisogno di aprirlo: ricordavo benissimo una delle voci contenute nell'indice. «Un trampolino di lancio per la mia carriera accademica», l'aveva definito lei. L'articolo di Gabby.

La vista di quel libro mi colpì come una frustata. Provai la voglia irresistibile di uscire di lì, di essere a casa mia in un bel sabato di sole in cui tutto scorreva tranquillo, senza morti, e la mia migliore amica mi telefonava per invitarmi a cena.

Acqua. Lavati la faccia con un po' di acqua fresca.

Barcollai verso la doppia porta e con un piede aprii un battente, cercando la cucina.

BZZZZZT. BZZZZZT. BZT. BZZZZZZT. BZT.

La stanza era priva di finestre. Alla mia destra vidi il quadrante arancione fosforescente di un orologio digitale. Più in là riconobbi due sagome bianche e una specie di pallido ripiano ad altezza vita. Frigorifero, cucina a gas, lavandino. A tentoni cercai un interruttore. Al diavolo le procedure: quelli della Scientifica non avrebbero avuto difficoltà a distinguere le mie impronte.

Premendomi il dorso della mano sulla bocca, incespicai verso il lavandino e mi rinfrescai il viso con l'acqua corrente. Quando tornai a girarmi, Ryan era fermo sulla porta.

«È tutto a posto, sto bene.»

Nella stanza volavano delle mosche, forse disturbate dalla nostra improvvisa intrusione.

BZZT. BZT. BZZZZT.

«Una mentina?» Mi tese un pacchetto di Life Savers.

«Grazie.» Accettai la caramella. «È stato il caldo.»

«In effetti qui sembra un forno.»

Una mosca gli sfiorò la guancia. «Che ca...» Manata nell'aria. «Cosa diavolo combina qui dentro lo stronzo?»

Li notammo contemporaneamente. Sul ripiano della cucina giacevano due oggetti marroni e un alone unto macchiava i tovaglioli di carta su cui erano stati messi ad asciugare. Tutt'intorno danzavano le mosche, che continuavano ad atterrare e a ridecollare senza darsi pace. Sulla sinistra era posato un guanto di lattice, gemello di quello che avevamo appena dissotterrato. Ci avvicinammo, aumentando l'agitazione degli insetti.

Guardai le due masse avvizzite e ripensai ai ragni e agli scarafaggi nel palo dell'insegna del barbiere, le zampette rinsecchite e contratte dal rigor mortis. Ma quei due esemplari non avevano nulla a che fare con gli aracnidi. Capii subito di cosa si trattava, anche se le altre le avevo viste solo in fotografia.

«Sono zampe.»

«Che cosa?»

«Zampe. Zampe di qualche animale.»

«Sicura?»

«Ne giri una.»

Così fece. Con la penna.

«Si vedono le estremità delle ossa inferiori degli arti.»

«E cosa ci fa con questa roba?»

«Come diavolo faccio a saperlo, Ryan?» Ripensai ad Alsa.

«Cristo.»

«Controlliamo il frigorifero.»

«Oh, Cristo.»

Il cadaverino era lì, spellato e avvolto nella plastica trasparente. Insieme ad altri.

«Che cosa sono?»

«Mammiferi di piccola taglia. Senza la pelle è difficile stabilirlo. Certo non sono cavalli.»

«Grazie, Brennan.»

In quel momento arrivò anche Bertrand. «Che roba è?»

«Animali morti.» La voce di Ryan tradiva grande tensione. «E un altro guanto.»

«Magari si nutre di selvaggina che trova già uccisa ai bordi delle strade.» Bertrand.

«Magari. Magari invece usa pelle umana per fare lampade. Voglio immediatamente i sigilli alla porta e il sequestro di tutto quello che c'è in casa. Raccogliete ogni indizio. Coltelli, frullatore, qualunque cosa troviate in quel maledetto frigorifero. Frugate anche nei sacchi della spazzatura e passate fino all'ultimo millimetro con il Luminol. Ma dove si è cacciato Gilbert?»

Ryan si diresse verso un telefono a parete sulla sinistra della porta.

«Ehi, quell'apparecchio ha un tasto redial per la ripetizione automatica dell'ultimo numero?»

Ryan annuì.

«Lo schiacci.»

«Sì, ma non si illuda di scoprire niente di interessante.»

Così dicendo premette il tasto. Ascoltammo una melodia di sette note seguita da quattro squilli. Quando la voce rispose, la paura che per tutto il giorno mi aveva attanagliato lo stomaco e serrato la gola salì di colpo fino al cervello e mi sentii svenire.

«Veuillez laisser votre nom et numéro de téléphone. Je vais vous rappeler le plus tôt possible. Merci. Lasciate per favore il vostro nome e recapito telefonico. Tempe vi richiamerà al più presto. Grazie.»

 

36

 

Fu come ricevere un colpo nello stomaco: le ginocchia si piegarono e mi si mozzò il respiro in gola.

Ryan mi aiutò a sedere su una sedia, mi portò dell'acqua e non fece domande. Non so per quanto tempo rimasi lì immobile e inebetita, in preda a una sensazione di svuotamento totale, ma non appena ritrovai la compostezza cominciai a valutare l'accaduto.

Mi aveva telefonato. Perché? Quando?

Osservai Gilbert indossare un paio di guanti di gomma e immergere le mani nel bidoncino dei rifiuti, estrarne qualcosa e depositarlo nella vasca del lavello.

Stava cercando di mettersi in contatto con me? O con Gabby? Quale avrebbe dovuto essere il messaggio? O intendeva solo verificare se ero in casa?

Un fotografo si spostava di stanza in stanza, bucando a colpi di flash l'oscurità dell'appartamento.

I messaggi vuoti delle ultime settimane. Era sempre lui?

Un tecnico in camice e guanti di gomma catalogava i libri sigillandoli in altrettanti sacchetti delle prove, un altro spennellava di polverina bianca la superficie rosso-nerastra dei ripiani e un terzo svuotava il frigorifero, trasferendo in una borsa termica alcuni involti in carta da pacco marrone.

Era morta lì? Erano quelle le ultime immagini registrate anche dai suoi occhi?

Ryan stava parlando con Charbonneau. Brandelli di conversazione giungevano alle mie orecchie attraverso la calura soffocante. Claudel dov'è? Già partito. Scovate il custode. Scoprite se ci sono seminterrati e cantine. Procuratevi le chiavi. Charbonneau si allontanò e di lì a poco tornò con una donna di mezza età in ciabatte e vestaglia. Nel giro di qualche minuto scomparvero di nuovo, insieme all'imballatore di libri.

A intervalli regolari Ryan si offriva di accompagnarmi a casa. Lì non c'era nulla ch'io potessi fare, ripeteva in tono gentile. Lo sapevo, ma non potevo nemmeno concepire l'idea di andarmene.

La nonna arrivò verso le quattro. Né particolarmente espansiva, né particolarmente ostile. Si limitò a fornirci una descrizione essenziale del signor Tanguay. Un tipo tranquillo. Capelli castani, calvizie incipiente. Medio in tutto. Praticamente poteva essere chiunque. Non aveva idea di dove fosse né di quanto sarebbe stato via. Era già partito altre volte, ma mai per lunghi periodi. Sapeva che non c'era solo perché Mathieu era incaricato di dar da mangiare ai suoi pesci. Con lui era sempre stato gentile e in cambio di quel favore gli dava qualche soldino. A parte quello, non lo conosceva e non lo vedeva quasi mai. Probabilmente lavorava. Probabilmente aveva una macchina. Non ne era sicura. Non erano affari suoi. Non voleva impicciarsi di cose che non la riguardavano.

Per tutto il pomeriggio e gran parte della sera i tecnici della Scientifica furono impegnati nelle operazioni di raccolta degli indizi. Io alle cinque cedetti. Avevo un disperato bisogno di uscire, perciò accettai il passaggio di Ryan e me ne andai.

Durante il tragitto in macchina parlammo pochissimo. In sostanza lui ripeté ciò che mi aveva già detto una volta per telefono, e cioè che dovevo restarmene tappata in casa. Avrebbe piazzato delle unità di sorveglianza continuata intorno all'edificio, ma io avrei fatto molto meglio a rinunciare alle mie sortite e alle mie esplorazioni segrete.

«Niente prediche», lo interruppi in un tono che tradiva tutta la mia fragilità emotiva.

E così sprofondammo in un silenzio teso. Giunti davanti a casa Ryan parcheggiò e si voltò a guardarmi. Sentivo il suo sguardo sfiorarmi la guancia.

«Mi ascolti, Brennan, non è mia intenzione renderle tutto più difficile. Questo pazzo ha le ore contate, può metterci la mano sul fuoco, ma ci terrei che lei vivesse abbastanza per vederlo con i suoi occhi.»

Che dire? Non mi aspettavo tanta partecipazione emotiva, e rimasi colpita più di quanto non fossi disposta ad ammettere.

 

Furono istituiti posti di blocco ovunque. A tutti gli agenti del Québec, della polizia dell'Ontario, all'RCMP e a tutte le autorità del Vermont e dello stato di New York furono diramate descrizioni e ordini di fermo. Ma il Québec è grande, i suoi confini facili da varcare, ed esistono centinaia di posti dove nascondersi o attraverso cui fuggire.

Nei giorni seguenti presi in considerazione ogni possibilità. Tanguay poteva essersi rintanato da qualche parte per restare tranquillo in attesa di tempi migliori. Ma poteva anche essere morto. O essersi definitivamente trasferito altrove. I serial killer lo fanno: fiutano il pericolo e abbandonano il campo. Alcuni non vengono mai catturati. No. Quell'ultima possibilità era inaccettabile.

Domenica non mi mossi da casa. Birdie e io ci dedicammo a un'attività che i francesi chiamano coconer e per tutto il giorno non facemmo altro che poltrire languidamente. Non mi vestii ed evitai accuratamente di accendere radio e televisore: niente immagini strazianti di Gabby e spietate descrizioni della vittima e del sospetto assassino. Le uniche cose che mi concessi furono tre telefonate, di cui una a Katy e una a una zia di Chicago. Felice compleanno, zietta! Ottantaquattro. Complimenti.

Katy sapevo per certo che era a Charlotte, ma avevo bisogno di rassicurarmi. Nessuna risposta. Ovviamente. Maledetta distanza. No, anzi, benedetta distanza. Che mia figlia stesse pure alla larga dal luogo in cui il mostro aveva tenuto in mano la sua fotografia. Non le avrei mai detto di quella macabra scoperta.

Lasciai per ultima la madre di Gabby. Era sotto sedativi e non poté venire al telefono. Parlai così con il signor Macaulay. Ammesso e non concesso che le spoglie venissero restituite, il funerale si sarebbe svolto il giovedì successivo.

Per un po' rimasi seduta a singhiozzare inconsolabilmente. I demoni che albergano nelle mie vene chiedevano a gran voce dell'alcool. Dolore-piacere: un principio così elementare. Dissetaci. Addormentaci. Basta con questa sofferenza.

Invece non mi arresi. Sarebbe stato fin troppo facile, ma quello non era un incontro sportivo qualsiasi e sacrificare la partita significava rinunciare alla carriera, perdere gli amici e il rispetto per me stessa. Tanto valeva lasciarsi massacrare direttamente da Saint-Jacques/Tanguay.

No. Non mi sarei arresa. Non davanti alla bottiglia, né davanti al maniaco. Lo dovevo a Gabby. E a me stessa e a mia figlia. Perciò mi guardai bene dal bere e continuai ad aspettare, rimpiangendo amaramente di non aver costretto Gabby a raccontarmi tutto fino in fondo. E di quando in quando controllavo che gli agenti di sorveglianza fossero ai loro posti.

 

Lunedì verso le undici e mezzo ricevetti una chiamata di Ryan. LaManche aveva terminato l'autopsia. Causa del decesso: strangolamento. Nonostante la decomposizione aveva trovato un solco impresso in profondità nelle carni del collo di Gabby. Sotto e sopra di esso la pelle appariva piagata da un serie di graffi e piccole scanalature e i vasi e i capillari della gola mostravano centinaia di minuscole emorragie.

La voce di Ryan si fece più opaca e lontana. Immaginai Gabby che cercava disperatamente di respirare e sopravvivere. Basta così. Grazie a Dio l'avevamo trovata in fretta. Non avrei potuto sopportare l'orrore di vederla sul mio tavolo operatorio: il dolore della perdita era già abbastanza grande.

«... ioide rotto. Qualunque cosa abbia usato doveva avere una struttura ritorta, perché ha lasciato impronte a spirale nella pelle.»

«È stata violentata?»

«Impossibile dire per via della decomposizione. In ogni caso non hanno rilevato tracce di sperma.»

«Epoca del decesso?»

«Minimo cinque, massimo dieci giorni, secondo le stime di LaManche.»

«Un bel range di incertezza.»

«Visto il caldo e la scarsa profondità della fossa, se fossero di più il cadavere dovrebbe trovarsi in condizioni peggiori.»

Gesù santissimo. Poteva anche non essere morta il giorno della scomparsa.

«Avete controllato il suo appartamento?»

«Nessuno l'ha vista, ma era passata da casa.»

«E di Tanguay? Notizie?»

«Pronta? Fa l'insegnante. Lavora in una piccola scuola a ovest dell'isola.» Fruscio di pagine sfogliate. «La Saint-Isidor. Dal 1991. Ventotto anni, single. Sul modulo di richiesta, alla voce "parente più stretto" ha risposto "nessuno". Stiamo verificando tutto. Vive in Séguin dal '91. La padrona di casa dice che prima stava da qualche parte negli Stati Uniti.»

«Impronte?»

«Un'infinità. Le abbiamo analizzate, ma senza risultato. Stamane le spediremo a sud.»

«Ce n'erano anche nel guanto?»

«Sicuramente due ben leggibili e il profilo di un palmo.»

Immagine di Gabby. La busta di plastica. Un altro guanto. Scrissi un'unica parola. Guanto.

«È laureato?»

«Alla Bishops. Bertrand è andato a Lennoxville e Claudel sta cercando di parlare con qualcuno alla Saint-Isidor, ma senza troppa fortuna. Il custode avrà almeno cent'anni e non c'è in giro nessuno. D'estate la scuola è chiusa, ovviamente.»

«Nell'appartamento non avete trovato dei nomi?»

«Niente. Né nomi, né foto, né agende. Neanche una lettera. È come se vivesse nel vuoto sociale completo.»

Seguì un lungo silenzio, al termine del quale Ryan riprese: «Forse questo spiega i suoi strani hobby».

«Gli animali?»

«Gli animali e la collezione di coltelli.»

«Coltelli?»

«L'amico aveva più lame di un ortopedico. Soprattutto attrezzi chirurgici. Coltelli, rasoi, bisturi. Li teneva sotto il letto. Insieme a una scatola di guanti di lattice da ospedale. Originali.»

«Un feticista solitario appassionato di lame. Magnifico.»

«E la solita biblioteca porno. Dallo stato delle pagine, molto consultata.»

«Che altro?»

«Ha una macchina.» Nuovo fruscio. «Una Ford Probe del 1987. La stanno ancora cercando. Abbiamo appena ricevuto la foto della patente, stiamo diramando anche quella.»

«Tutto qui?»

«Be', giudicherà lei da sola, ma la nonna di Mathieu aveva ragione: non è certo un tipo che si nota. O forse la fotocopia e il fax non gli rendono giustizia.»

«Potrebbe trattarsi di Saint-Jacques?»

«Potrebbe. O di Jean Chrétien. O del tizio che vende hot-dog in Rue Saint-Paul. Escluderei Richard Petty solo perché ha i baffi.»

«Molto spiritoso, Ryan.»

«Il fatto è che non si è nemmeno mai beccato una multa. Niente. Comportamento ineccepibile.»

«Giusto. Un bravo ragazzo che colleziona coltelli e materiale pornografico e fa a pezzetti piccoli mammiferi innocenti.»

Pausa.

«A proposito, cos'erano?»

«Non ne siamo ancora sicuri. Stanno consultando non so chi all'università.»

Lessi la parola che avevo scritto e deglutii.

«Nessuna impronta nel guanto ritrovato insieme al corpo di Gabby?» Che fatica pronunciare il suo nome.

«Nessuna.»

«Ma sapevamo già che non ce ne sarebbero state.»

«Esatto.»

Tipico sottofondo di rumori da centrale di polizia.

«Vorrei lasciarle una copia della foto della patente, così almeno si fa un'idea del suo aspetto nel caso dovesse incontrarlo di persona. Comunque, finché non lo avremo preso continuo a pensare sia meglio che lei non si allontani troppo da casa.»

«Passerò io a ritirarla. Se quelli della Scientifica hanno terminato con il guanto, non mi dispiacerebbe portarlo in biologia. E poi da Lacroix.»

«Credo sia...»

«Mi risparmi le sue stronzate maschiliste, Ryan.»

Inspirazione profonda, espirazione sonora.

«C'è qualcosa che ancora non mi ha detto?»

«Brennan, quel che sappiamo noi lo sa anche lei.»

«Bene. Sarò lì fra mezz'ora.»

 

In realtà mi occorse anche meno, e quando arrivai scoprii che la Scientifica aveva terminato il lavoro e aveva già inviato il guanto in biologia.

Lanciai un'occhiata all'orologio: le dodici e quaranta. Chiamai gli uffici centrali della CUM per sapere se potevo vedere le foto scattate nell'appartamento di Saint-Jacques in Rue Berger. Intervallo pranzo. Il centralinista avrebbe lasciato un messaggio.

All'una varcai la soglia della sezione di biologia. Una donna con chioma fluente e una florida faccia da angioletto natalizio stava agitando una provetta di vetro. Alle sue spalle, sul piano di lavoro, due guanti di lattice.

«Bonjour, Françoise.»

«Oh, sapevo che oggi l'avrei vista.» Gli occhi da cherubino assunsero un'espressione costernata. «Mi dispiace. Non ho parole per quel che è successo.»

«Merci. Grazie dell'interessamento.» Annuii, ammiccando in direzione dei guanti. «Di quelli cosa mi dice?»

«Questo è pulito. Nessuna traccia di sangue.» Indicò il guanto trovato insieme al corpo di Gabby. «Con quell'altro invece stavo giusto cominciando. Le va di restare?»

«Perché no?»

«Ho raschiato dei campioni da queste macchie scure e li ho reidratati in soluzione fisiologica.»

Esaminò il liquido e infilò la provetta nell'apposito vassoio forato d'acciaio. Quindi prese una pipetta dotata di una lunga proiezione vuota, la avvicinò a una fiamma per sigillarla e ne asportò la sommità.

«Per prima cosa cercherò sangue umano.»

Estrasse una minuscola boccetta dal frigorifero, ruppe il sigillo e vi inserì la punta sottile di una pipetta nuova. Come sangue succhiato da una zanzara, l'antisiero prese a risalire lungo la miniconduttura, mentre la biologa tappava l'estremità opposta con il pollice.

Il becco affusolato venne poi inserito nella pipetta sigillata a fuoco. Non appena Françoise staccò il pollice, l'antisiero iniziò a gocciolare fuori.

«Il sangue riconosce solo le proprie proteine, o antigeni. Quando rileva la presenza di antigeni estranei cerca di distruggerli con gli anticorpi, che possono funzionare in modi diversi: alcuni per disintegrazione, altri per agglomerazione, quest'ultima detta anche reazione di agglutinazione.

«L'antisiero si forma all'interno di un animale, di solito un coniglio o una gallina a cui è stato inoculato il sangue di una specie diversa. Il sangue dell'ospite registra l'invasione e per proteggersi produce anticorpi. Se all'animale viene iniettato sangue umano, il prodotto finale sarà siero anti-umano. Se si tratta di sangue di capra sarà siero anti-caprino, e via discorrendo.

«Mescolato ad altro sangue umano, siero anti-umano genera una reazione agglutinante. Stia a vedere. Se questo nella provetta è effettivamente sangue umano, presto assisteremo al formarsi di un precipitato nel punto in cui il campione e l'antisiero vengono a contatto. Come termine di confronto useremo la soluzione fisiologica.»

Gettò la pipetta in un contenitore per rifiuti biologici e prese la provetta contenente il campione di Tanguay. Con una seconda pipetta aspirò quindi alcune gocce del campione e le iniettò nell'antisiero.

«Quanto ci vorrà?» chiesi.

«Dipende dalla forza dell'antisiero. Massimo quindici minuti, comunque. Questo è piuttosto buono. Direi non più di cinque o sei.»

Dopo cinque tornammo a controllare. Françoise mise le due provette sotto la Luxolamp, contro uno sfondo di cartoncino nero. Ripetemmo il controllo allo scadere dei dieci minuti. E poi dei quindici. Niente. Tra l'antisiero e la soluzione del campione non si stava formando alcuna striscia bianca. La miscela restò trasparente come quella fisiologica di confronto.

«Bene. Adesso sappiamo che non è sangue umano. Vediamo se è animale.»

Questa volta dal frigorifero estrasse un intero campionario di boccette.

«Ed è possibile individuare la specie esatta?»

«No. In genere funziona solo per famiglie. Bovini. Cervidi. Canidi.»

Guardai il portaprovette: accanto a ciascuna bottiglia era scritto il nome di un animale. Capra. Ratto. Cavallo. Dentro di me rividi le zampe trovate nella cucina di Tanguay.

«Proviamo con i cani.»

Negativo.

«Che ne pensa di uno scoiattolo o di un vitello?»

Rifletté un istante, quindi prese una boccetta. «Ratto, magari.»

In meno di quattro minuti nella provetta si era formato un minuscolo strato schiumoso, giallo in superficie, trasparente al di sotto, e con una strisciolina bianca e torbida in mezzo.

«Voilà», esclamò Françoise. «Sangue animale. Di un animale piccolo, un mammifero, forse un roditore o una marmotta, chissà. Più di così sarà difficile stabilire. Non so se le basta.»

«Be', sicuramente è già un aiuto. Posso usare il suo telefono?»

«Bien sur.»

Composi il numero di un interno sullo stesso piano.

«Lacroix.»

Mi identificai e spiegai ciò che volevo.

«Senz'altro. Mi dia solo venti minuti. Sto finendo un test.»

Firmai il modulo di ritiro dei guanti, quindi tornai nel mio ufficio e trascorsi la mezz'ora successiva controllando e sigiando referti. Dopodiché mi diressi in fondo al corridoio della sezione di biologia e varcai una porta su cui era scritto Incendie et explosifs. Combustibili ed esplosivi.

Un tizio in camice da laboratorio era fermo davanti a un macchinario gigantesco che una targa identificava come diffrattometro a raggi X. Lui non disse nulla e io non aprii bocca finché non ebbe recuperato una diapositiva coperta da una leggera patina bianca e non la ebbe depositata su un piatto d'acciaio. Soltanto allora mi guardò: due occhi dolci come Bambi, palpebre sornione e ciglia ricurve come petali di margherita.

«Bonjour, monsieur Lacroix. Comment ça va?»

«Bien. Bien. Ce li ha?»

Sollevai le due buste di plastica.

«Allora cominciamo subito.»

Mi fece strada in una piccola stanza che ospitava un secondo macchinario delle dimensioni di una fotocopiatrice, due monitor e una stampante. Alla parete era appesa una tavola periodica degli elementi.

Depose le buste di plastica su un ripiano e indossò dei guanti chirurgici. Quindi, con grande cautela, estrasse i due reperti, li esaminò e li riappoggiò ciascuno sopra la propria busta. I guanti che si era appena messo erano identici a quelli sul ripiano.

«Innanzitutto andremo alla ricerca delle caratteristiche più evidenti, come i particolari di fabbricazione, il peso, la grana, il colore. E le rifiniture dei bordi.» Girò ripetutamente i due guanti, analizzandoli e continuando a parlare. «Sembrano molto simili tra loro. Stessa tecnica di rifinitura. Vede?»

Guardai. Il polsino di ciascun guanto terminava con un bordo arricciato verso l'esterno.

«Nel senso che non sono tutti uguali?»

«Esatto. Alcuni si avvolgono all'infuori, altri all'indentro. Questi sono entrambi esterni. Bene. Ora vediamo che altro ci raccontano.»

Portò il guanto di Gabby fino all'apparecchio misterioso, sollevò il coperchio e lo depose su una specie di vaschetta situata all'interno.

«Per i campioni più piccoli uso quelle.» Indicò delle provette di plastica. «Prendo un pezzette di pellicola di polipropilene, la tendo sulla bocca del contenitore e con un po' di adesivo a doppio strato creo una base vischiosa di supporto al frammento. In questo caso però non ce n'è bisogno. Infileremo direttamente dentro il guanto.»

Premette un tasto e la macchina parve svegliarsi con un pigro ronzio. Contemporaneamente una scatola posizionata su un'asta in un angolo della stanza si illuminò, evidenziando la parola RAGGI X a lettere bianche su sfondo rosso. Altri tasti emettevano bagliori colorati a indicare lo stato operativo della macchina. Rosso: raggi X. Bianco: acceso. Arancione: otturatore aperto.

Per qualche secondo rimasi a osservare Lacroix che impostava i valori di lavoro, quindi lo vidi richiudere il coperchio e spostarsi a una sedia di fronte ai monitor.

«S'il vous plaît.» Indicò l'altra sedia.

Sul primo video comparve un paesaggio desertico, una distesa granulosa di sinclinali e anticlinali punteggiata da ombre e macigni. Sovrapposti a questa scena vi erano alcuni cerchi concentrici, fra cui i due centrali e più piccoli a forma di pallone da football. In corrispondenza dei due cerchi altrettante linee spezzate si intersecavano ad angolo rette formando una croce.

Lacroix metteva a fuoco e spostava l'immagine agendo su un joystick, mentre i macigni saltavano dentro e fuori dai cerchi.

«Così appare il nostro guanto ingrandito ottanta volte. Questo è solo un punto particolare, naturalmente, e ogni inquadratura campiona una superficie di circa trecento micron, più o meno quella iscritta nel cerchio punteggiato. In questo modo si analizza ai raggi X la totalità del campione.»

Dedicò qualche altro secondo spostandosi sull'immagine, quindi puntò il mirino su una zona apparentemente poco accidentata.

«Ecco. Qui. Qui dovrebbe andare bene.»

Schiacciò un interruttore e la macchina riprese a ronzare.

«In questo momento stiamo creando un vuoto. Ci vorrà un paio di minuti, poi avverrà la scansione. Sarà questione di un attimo.»

«In questo modo capiremo cosa contiene il guanto?»

«Precisamente. È come un'analisi ai raggi X: attraverso la microfluorescenza è possibile determinare quali elementi chimici sono presenti in un dato campione.»

Quando il ronzio cessò, sul monitor di destra cominciò a delinearsi una specie di disegno. Una serie di minuscole protuberanze rosse comparve sul lato inferiore del video sviluppandosi contro uno sfondo azzurro intenso, ciascuna attraversata da una sottile riga gialla. Nell'angolo in basso a destra era riprodotta l'immagine di una tastiera, con i tasti contrassegnati dalle abbreviazioni dei vari elementi.

Lacroix digitò qualche comando e sul video si materializzarono delle lettere. Alcune protuberanze restarono piccole, altre crebbero fino a trasformarsi in impervi pinnacoli, simili ai torrioni delle termiti giganti australiane.

«C'est ça.» Eccolo. Lacroix indicò una colonna a destra. Si innalzava dalla base al vertice dello schermo, dove la cima appariva addirittura troncata. Un picco di dimensioni inferiori, a destra del primo, si arrampicava fino a un quarto della sua altezza. Entrambi erano contrassegnati Zn.

«Zinco. Un classico. Si trova in tutti i guanti di questo tipo.»

Poi mi mostrò altre due formazioni turrite all'estrema sinistra, una bassa, l'altra lunga tre quarti del video. «La prima è magnesio, Mg. Quella più alta, con la sigla Si, è silicio.» Tornando verso destra, un altro doppio picco riportava la lettera S.

«Zolfo.»

Quello marcato Ca si ergeva spiraleggiando fino a metà schermo.

«E non manca una buona dose di calcio.»

Alle spalle di quest'ultimo si apriva una spaccatura, seguita da numerosi monticelli: semplici colline, in confronto alle alpi di zinco. Fe, diceva la scritta.

«Un po' di ferro.»

Lacroix si appoggiò allo schienale e riassunse la situazione. «Nel complesso mi sembra un cocktail piuttosto comune. La componente primaria è lo zinco, mescolato a calcio e silicio. Stamperò questa schermata e passeremo a esaminare un'altra zona.»

Ripetemmo il test per un gran numero di aree, tutte caratterizzate dalla stessa combinazione di elementi.

«Be', direi che così basta. Proviamo con l'altro guanto.»

Ricominciammo da capo con il guanto rinvenuto nella cucina di Tanguay.

I picchi di zinco e di zolfo si rivelarono molto simili, ma quel secondo reperto conteneva una percentuale di calcio alquanto superiore ed era del tutto privo di ferro, silicio e magnesio. In compenso, una sorta di esile scheggia indicava la presenza di potassio. Stesso esito per tutte le aree analizzate.

«Che cosa significa?» chiesi, ma ero già sicura della sua risposta.

«Significa che ogni fabbricante di lattice utilizza ingredienti leggermente diversi. Addirittura non è raro trovare differenze fra i guanti prodotti dalla stessa casa, ma sempre entro certi limiti.»

«In poche parole questi guanti non provengono da un unico paio?»

«Direi di più: che non sono nemmeno della stessa marca.»

Si alzò per andare a riprendere il guanto, lasciandomi sprofondata nei pensieri.

«Il sistema a diffrazione di raggi X potrebbe fornirci informazioni più precise?»

«Il procedimento a cui ha appena assistito, la microfluorescenza a raggi X, ci rivela quali elementi sono presenti in un oggetto. La diffrazione, invece, ne descrive la miscela, la struttura chimica. Con il primo metodo possiamo per esempio scoprire che un certo campione contiene sodio e cloruro. Con la diffrazione stabiliamo che si tratta di cristalli di cloruro di sodio, in pratica sale da cucina.

«Per semplificare al massimo, nel diffrattometro il campione viene fatto ruotare e bombardato con i raggi X: la loro modalità di diffrazione, in pratica il modo in cui rimbalzano, rifletterà fedelmente la struttura specifica dei cristalli.

«Il limite di questa indagine è la sua praticabilità solo in presenza di materiali a struttura cristallina, benché si tratti dell'ottanta per cento dei casi che ci capitano. Ma il lattice fa parte del restante venti per cento, quindi immagino che la diffrazione non ci racconterebbe granché di nuovo. No, questi due guanti provengono decisamente da fabbriche diverse.»

«E se invece uscissero solo da scatoloni diversi? Anche fra le partite di lattice esisteranno variazioni più o meno rilevanti, no?»

Lacroix rimase silenzioso un istante. Poi: «Aspetti. Voglio mostrarle qualcosa».

Scomparve in laboratorio, dove lo sentii confabulare con il suo assistente, quindi ricomparve reggendo una pila di fascicoli stampati, ciascuno composto da sei o sette fogli con l'ormai noto motivo a spire e pinnacoli. Ne aprì uno dopo l'altro, e insieme studiammo le varianti.

«Ecco, vede? Ciascuna di queste mostra una sequenza di test eseguiti su guanti provenienti da un'unica fabbrica, ma da scatoloni diversi. Le differenze esistono, ma in tutti i casi sono di gran lunga inferiori a quelle rilevate nei nostri due campioni.»

Ostinata, ripassai alcune serie più e più volte. Aveva ragione. Le dimensioni dei picchi variavano, ma le componenti erano sempre le stesse.

«E adesso guardi questa.»

Avvicinò una seconda risma di fogli. Anche lì le differenze c'erano, ma nel complesso gli ingredienti di base restavano uguali.

Poi vidi un diagramma che mi lasciò di stucco. La configurazione aveva un aspetto molto familiare. Controllai i simboli. Zn, Fe, Ca, S, Si, Mg. Alto tasso di zinco, silicio e calcio. Tracce degli altri elementi. Sovrapposi la stampa finale del guanto di Gabby alla serie appena trovata. Il motivo era pressoché identico.

«Signor Lacroix, lei pensa che questi guanti siano della stessa marca?»

«Sì, sì, è proprio questo il punto. Probabilmente anche della stessa partita. È un particolare di cui mi sono ricordato poco fa.»

«E di che caso si trattava?» Il cuore mi martellava già nel petto.

«Recente. Roba di qualche settimana.» Tornò alla prima pagina della serie in questione. Numero d'événement: 327468. «Se vuole posso controllare al computer.»

«La prego.»

Nel giro di pochi secondi un fiume di dati dilagò sullo schermo.

Numero ritrovamento: 327468. Numero LML: 29427. Agenzia richiedente: CUM. Titolari indagine: L. Claudel e M. Charbonneau. Luogo ritrovamento: 1422 Rue Berger. Data ritrovamento: 24/06/94.

Un vecchio guanto di gomma. Forse il nostro uomo ci teneva particolarmente alle unghie. Claudel! E io che avevo pensato a un guanto per i lavori domestici! Saint-Jacques aveva dei guanti chirurgici, e identici a quello rinvenuto nella fossa di Gabby!

Ringraziai Lacroix, raccolsi i fogli con le stampate e mi congedai. Andai subito a restituire i guanti al magazzino, ma la mia mente continuava a rimuginare sulle nuove scoperte. Il guanto della cucina di Tanguay non faceva il paio con quello rinvenuto insieme al cadavere di Gabby. Sul primo le impronte di Tanguay c'erano, e le macchie esterne erano sangue animale. Il secondo invece era pulito: niente sangue, niente impronte. Nella casa di Saint-Jacques c'era un altro guanto identico a quello di Gabby. Che Bertrand avesse ragione? Tanguay e Saint-Jacques erano veramente la stessa persona?

Sulla scrivania mi attendeva un promemoria rosa. La Scientifica della CUM mi comunicava che le foto scattate nell'appartamento di Rue Berger erano state archiviate su un CD-ROM consultabile in sede o asportabile. Richiamai subito per confermare la mia intenzione di portarlo via. Sarei stata da loro nel giro di poco.

In realtà per raggiungere il quartier generale della CUM dovetti lottare contro il traffico dell'ora di punta e i turisti che intasavano la zona del Vecchio Porto. Parcheggiai in seconda fila e mi fiondai nella centrale, diretta dal sergente in servizio all'ufficio del terzo piano. Incredibile ma vero, il disco era lì. Firmai e lo prelevai, scesi di corsa fino alla macchina e lo infilai nella cartella.

Per tutto il tragitto che mi separava da casa continuai a lanciare occhiate nello specchietto retrovisore. E se Tanguay mi stava seguendo? O Saint-Jacques? Era una specie di ossessione.

 

37

 

Alle cinque e mezzo ero di ritorno a casa. Sedetti, cercando di capire che altro potevo fare. Intorno a me il silenzio. Nulla. Non potevo fare nulla. Aveva ragione Ryan. Tanguay poteva benissimo essere in agguato là fuori e non mi sembrava il caso di andargli incontro.

Però dovevo almeno mangiare. E trovare un modo per tenermi occupata.

Decisi di uscire. Giunta in strada mi guardai subito intorno. Eccoli. Nella viuzza a sinistra della pizzeria. Annuii in direzione degli agenti e mi incamminai verso la Sainte-Catherine. Al termine di una breve consultazione uno dei due scese dall'auto e mi si piazzò alle calcagna, la sua contrarietà era quasi palpabile. Pazienza. Dovevo pur fare un po' di spesa.

In laboratorio non me n'ero accorta, ma la giornata era splendida. La cappa di caldo aveva lasciato posto a enormi nuvoloni bianchi che ora galleggiavano nel cielo azzurro accecante, proiettando isole d'ombra sulla scacchiera del mondo. Era bello starsene fuori.

Verdura. Da Plantation palpeggiai avocados, valutai con occhio critico il punto di maturazione raggiunto dalle banane, feci scorta di broccoli, di cavolini di Bruxelles e di patate. Una baguette alla boulangerie. Mousse di cioccolato in pasticceria. E poi spezzatino di maiale, trita di manzo e una tourtière in macelleria.

«C'est tout?»

«Hm... ma no, mi dia anche una costata. Bella alta, mi raccomando.» Indicai con pollice e indice un paio di centimetri di spessore.

Mentre guardavo il macellaio staccare la sega dal gancio, il pruritino premonitore tornò a farsi sentire. Perché non riuscivo a trasformarlo in un'idea compiuta? La sega? Fin troppo scontato. Chiunque può comprarsi una sega da macellaio. L'SQ aveva già seguito quella pista senza alcun successo, contattando tutte le aziende produttóri dello stato. I pezzi in commercio erano migliaia.

Ma allora cosa? Sapevo per esperienza che quando ci si sforza troppo di far emergere un'idea dal subconscio si ottiene solo di ricacciarla ancora più giù. L'unica era dunque lasciarla stazionare a metà strada finché non si fosse decisa a salire del tutto in superficie. Pagai e mi riavviai verso casa, non senza aver fatto una breve deviazione fino al Burger King di Rue Sainte-Catherine.

Al rientro però mi aspettava una sorpresa, l'ultima che avrei desiderato al mondo: una telefonata. Per alcuni minuti rimasi seduta sul bordo del divano, abbracciata ai sacchetti della spesa e quasi ipnotizzata dalla spia della segreteria. Un messaggio. Di Tanguay? Questa volta mi aveva parlato o era rimasto di nuovo in silenzio?

Sei isterica, Brennan. Sarà Ryan, no?

Mi asciugai il palmo della mano e premetti il tasto di riascolto. Purtroppo non era un messaggio di Tanguay ma qualcosa di molto peggio.

«Ciao, ma'. Sei fuori a spassartela, eh? O sei in casa? Se ci sei rispondi, dai. Tira su...» In sottofondo rumori di strada. Stava chiamando da una cabina. «No, non ci sei. Be', comunque adesso non posso parlarti. Sono on the road. On the road again.» Imitazione di Willie Nelson. «Mica male, eh? Senti, volevo dirti che passo a trovarti. Avevi ragione tu: Max è una testa di cavolo. Meglio soli che male accompagnati.» Intrusione di una voce esterna. «Sì, ci metto solo un minuto», disse a qualcuno. «Be', mi è capitata questa occasione di fare un salto a New York. La Grande Mela. Ho trovato un passaggio gratis, perciò adesso sono qui e venire a Montréal è uno scherzo. Insomma, preparati che arrivo. Ciao!»

Clic.

«Oh, no! No, non venire, Katy!» Ma stavo parlando da sola.

Ronzio di riawolgimento del nastro. Un incubo. Dev'essere un incubo. Gabby muore, uno psicopatico la sotterra con una foto mia e di Katy, e proprio adesso lei decide di venire a trovarmi! Il sangue mi martellava nelle tempie, il cervello come impazzito. Devo fermarla. Ma come? Non so nemmeno dov'è!

Pete.

Mentre dall'altra parte il telefono squillava ebbi un flashback di Katy a tre anni. Eravamo al parco. Io chiacchieravo con un'amica e intanto la tenevo d'occhio mentre giocava con la sabbia. All'improvviso aveva mollato paletta e secchiello per andare verso il dondolo. Il pony di ferro oscillava avanti e indietro. Dopo un attimo di esitazione era corsa verso di lui, la faccina radiosa ed eccitata alla vista della finta criniera e delle briglie che ondeggiavano nell'aria. Sapevo che l'avrebbe colpita, ma non potevo evitarlo. E adesso stava accadendo di nuovo.

Al numero di Pete non rispondeva nessuno.

Provai passando dal centralino. Un'assistente mi disse che era uscito per ritirare una deposizione. Ovvio. Lasciai un messaggio.

Il mio sguardo tornò a posarsi sulla segreteria telefonica. Chiusi gli occhi e inspirai a più riprese, sforzandomi di rallentare le pulsazioni cardiache. Mi sentivo la nuca stretta in una morsa ed ero in preda a una scalmana insopportabile.

«Non succederà.»

Riaprii gli occhi. Birdie mi stava osservando dalla parte opposta della stanza.

«Non succederà», gli ripetei.

Iridi gialle tonde e immobili.

«Devo intervenire.»

Si sollevò inarcando la schiena, le quattro zampe saldamente puntate agli angoli di un minuscolo quadrato sulla moquette, arricciò la coda e si risedette senza mai staccarmi gli occhi di dosso.

«Farò qualcosa. Non posso certo starmene qui seduta ad aspettare che quel pazzo torni a colpire. Non con mia figlia.»

Portai la spesa in cucina e feci sparire tutto in frigorifero. Quindi aprii il computer portatile, lo accesi e richiamai il foglio di calcolo. Quanto tempo prima avevo cominciato quel lavoro? Controllai le date. Il corpo di Isabelle Gagnon era stato rinvenuto il 2 di giugno, sette settimane prima. Mi sembravano sette anni.

Andai in studio a prendere le cartelline con i file. Forse fotocopiare tutta quella roba non era stata fatica sprecata.

Per due ore mi concentrai su ogni foto, data, descrizione, addirittura su ogni singola parola degli interrogatori e dei rapporti di polizia in mio possesso. E poi di nuovo tutto da capo, ripartendo da zero, nella speranza di cogliere il nesso che ancora mi sfuggiva. Al terzo tentativo feci centro.

Stavo rileggendo la deposizione rilasciata dal padre di Grace Damas a Ryan, quando lo starnuto concettuale che per giorni aveva tentato di formarsi senza mai trovare sfogo riuscì finalmente a erompere nella mia coscienza.

La macelleria! Grace Damas aveva lavorato in una macelleria. L'assassino usava una sega per carne e aveva conoscenze di anatomia. Tanguay dissezionava animali. Forse il legame esisteva. Cercai il nome del negozio, ma non lo trovai.

Allora composi il numero riportato sulla cartellina. Mi rispose un uomo.

«Parlo con il signor Damas?»

«Sì.» Inglese fortemente accentato.

«Sono la dottoressa Brennan. Sto indagando sulla morte di sua moglie e mi chiedevo se non fosse disposto a rispondere a un paio di domande.»

«Prego.»

«All'epoca in cui scomparve, sua moglie lavorava fuori casa?»

Pausa. Poi: «Sì».

Sottofondo di Tv.

«È possibile sapere dove?»

«In una panetteria di Fairmont. Le Bon Croissant. Era un part-time. Sa, con i bambini e tutto il resto non poteva lavorare a giornata piena.»

Ci riflettei sopra. Peccato. Un buco nell'acqua.

«E da quanto tempo lavorava lì, signor Damas?» ripresi, cercando di nascondere la delusione.

«Da pochi mesi, mi pare. Grace non durava mai a lungo da nessuna parte.»

«Prima di allora dove altro era stata?»

«In una macelleria.»

«Quale?» Fiato sospeso.

«Boucherie Saint-Dominique. È di un nostro parrocchiano. Si trova sulla Sainte-Dominique, appena fuori Saint-Laurent, ha presente?»

Eccome. Rigagnoli di pioggia sulla vetrina.

«Questo lavoro, invece, a che periodo risaliva?» Voce controllata.

«A un annetto prima, se non sbaglio. Era rimasta lì per quasi tutto il '91. Se vuole posso verificare. Ma perché? È una cosa importante? Fino a oggi nessuno aveva mai voluto sapere le date precise.»

«Non saprei, signor Damas. Ma mi conceda un'ultima domanda, la prego. Per caso ricorda se sua moglie aveva mai nominato un certo Tanguay?»

«Chi?» Tono brusco.

«Tanguay.»

La voce di un presentatore invitò il pubblico a non cambiare programma durante la pausa pubblicitaria. Mi sentivo pulsare la testa e avevo la gola fastidiosamente secca.

«No.» Ancora più brusco.

Quel cambiamento improvviso mi colse impreparata.

«Be', la ringrazio molto. Mi è stato di grande aiuto. Le comunicherò tempestivamente eventuali sviluppi nelle indagini.»

Riagganciai e chiamai subito Ryan in ufficio. Non sarebbe rientrato per tutto il giorno. Provai a casa. Nessuna risposta. Ma bene. A quel punto sapevo cosa fare. Un'ultima telefonata, poi presi una chiave e uscii.

 

La Boucherie Sainte-Dominique appariva decisamente più animata della prima volta. Le vetrine erano tappezzate dagli stessi cartelli, ma adesso il negozio era illuminato e aperto. Benché l'offerta non fosse poi così ricca, una vecchia stava lentamente percorrendo il bancone studiando la merce, il volto flaccido e sbiancato dalla luce al neon. A un certo punto si chinò e indicò un coniglio. La piccola carcassa rigida mi riportò inevitabilmente alla memoria la triste collezione di Tanguay. E Alsa.

Attesi che la vecchia uscisse, quindi mi rivolsi all'uomo che serviva. Aveva una faccia rettangolare, dall'ossatura larga, e lineamenti grossolani. In netto contrasto le braccia, che spuntavano sottili e nervose dalle maniche della T-shirt. Macchie scure gli costellavano il davanti del grembiule, come petali secchi su una tovaglia di lino.

«Bonjour.»

«Bonjour.»

«Poca gente, eh, stasera?»

«Come tutte le sere.» Inglese. Accento marcato come quello del signor Damas.

Da una stanza sul retro udii provenire un tintinnio di oggetti metallici.

«Sto indagando sull'omicidio di Grace Damas.» Estrassi il tesserino d'identificazione e glielo feci balenare sotto il naso. «Devo rivolgerle alcune domande.»

L'uomo mi guardò. Nel retro qualcuno aprì e chiuse un rubinetto.

«Lei è il proprietario del negozio?»

Cenno di assenso.

«Signor...?»

«Plevritis.»

«Signor Plevritis, Grace Damas lavorò qui solo per un breve periodo, giusto?»

«Chi?»

«Grace Damas. Una sua comparrocchiana di Saint-Demetrius.»

Le braccia esili si incrociarono all'altezza del petto. Altro cenno di assenso.

«Quando, esattamente?»

«Circa tre o quattro anni fa. Non ricordo di preciso. Gli aiuti vanno e vengono.»

«E anche la signora Damas se ne andò?»

«Senza preavviso.»

«Come mai?»

«Lo sapessi! E non fu nemmeno l'unica.»

«Che lei ricordi appariva nervosa, turbata, infelice?»

«Dico, le sembro Sigmund Freud?»

«Qui aveva legato con qualcuno? Era particolarmente vicina a qualche collega?»

Le sue pupille si fissarono nelle mie, mentre un sorriso gli stirava gli angoli della bocca. «Vicina?» ripeté in tono ironico.

Gli restituii lo sguardo senza sorridere.

A quel punto anche lui si fece serio e i suoi occhi vagarono altrove.

«Qui ci siamo solo io e mio fratello. Non c'è nessuno a cui avvicinarsi.»Sputò fuori quell'ultima parola come un adolescente avrebbe fatto con una battuta sconcia.

«E in negozio non veniva a trovarla nessuno, nessun personaggio strano che potrebbe averle dato dei fastidi?»

«Senta, io le offrii un lavoro, le dissi cosa doveva fare e lei imparò a farlo. La sua vita sociale non mi interessava.»

«Certo, ma magari aveva nota...»

«Grace lavorava bene. Quando se ne andò, io mi incazzai. Cos'è questa mania di mollare la gente di colpo? Lo ammetto, sì, ero incazzato, ma non sono uno che tiene il muso. Quando venni a sapere della sua scomparsa, in chiesa, voglio dire, pensai che era scappata di casa. Non mi sembrava nel suo carattere, ma suo padre può andarci giù pesante, alle volte. Mi dispiace che l'abbiano ammazzata, ma davvero non la ricordo quasi.»

«Cosa intende per "andarci giù pesante"?»

Un'espressione vacua gli calò immediatamente sul viso. Abbassò gli occhi e con l'unghia del pollice si mise a grattar via qualcosa dal banco. «Be', di questo deve parlare con Nikos. Sono questioni di famiglia.»

Dunque Ryan aveva colto nel segno. E adesso? Qualcosa per stimolargli la memoria visiva. Dalla borsetta estrassi la foto di Saint-Jacques.

«Ha mai visto quest'uomo?»

Plevritis si sporse a prenderla. «Chi è?»

«Un suo vicino di casa.»

La studiò attentamente. «Come foto non mi sembra il massimo della vita.»

«È stata presa da una videocamera.»

«Anche il filmato di Zapruder, ma almeno si vedeva qualcosa.»

Non afferrai il riferimento ma feci finta di niente. Non avevo voglia di altre storie assurde. Poi colsi una specie di fremito sul suo viso, una lievissima strizzata d'occhi che per una frazione di secondo gli gonfiò le palpebre inferiori.

«Le è venuto in mente qualcosa?»

«Be', ecco...» Sguardo incollato alla foto.

«Cosa?»

«Assomiglia un po' a quell'altro stronzo che mi piantò in asso, ma forse è solo perché lei mi ci sta facendo pensare con tutte queste domande. Insomma, non lo so.» Mi restituì la foto attraverso il bancone. «Devo chiudere.»

«Chi? Chi era?»

«Senta, è una foto di merda. Potrebbe essere chiunque. Lasci perdere.»

«Cosa vuol dire che qualcun altro la piantò? Quando?»

«È per quello che mi incazzai tanto con Grace. Il tizio che avevo prima di lei se n'era andato senza neanche salutare, poi Grace, poi quest'altro ragazzo... Lui e Grace lavoravano part-time, ma erano l'unico aiuto che avevo. Mio fratello stava negli Stati Uniti e quell'anno ero da solo a mandare avanti la baracca.»

«Come si chiamava?»

«Fortier. Aspetti, mi faccia pensare. Leo. Leo Fortier. Me lo ricordo perché ho un cugino che si chiama anche lui Leo.»

«E lavorò qui nello stesso periodo della Damas?»

«Sì. L'avevo assunto per sostituire quello che se n'era andato prima di lei. Pensavo che con due a part-time in caso di assenza di uno sarei rimasto invalido solo per mezza giornata, no? E invece, tabernac, guarda in che casino mi mollano. Fortier restò qui un anno, forse un anno e mezzo, poi di colpo smise di venire. Non mi restituì nemmeno le chiavi. Fu lì che capii che dovevo organizzarmi diversamente. Non volevo più trovarmi in una situazione simile.»

«Che altro mi può dire di lui?»

«Oh, questa è una domanda facile facile. Niente. Vide il mio cartello, entrò e mi disse che voleva lavorare part-time. Gli orari che servivano a me gli andavano bene: al mattino presto per aprire e la sera per chiudere e pulire, e poi aveva anche un po' di esperienza nel taglio delle carni. Anzi, era proprio bravo. Insomma, lo presi. Di giorno non so più che altra cosa faceva, ma sembrava un tipo a posto. Molto tranquillo. Sgobbava senza dire una parola. Non credo nemmeno di aver mai saputo dove viveva.»

«E lui e Grace andavano d'accordo?»

«Che ne so? Quando lei arrivava lui era già uscito, e quando se ne andava lei, lui tornava. Probabile che non si conoscessero neanche.»

«Dunque pensa che questo tizio della foto possa assomigliare a Fortier?»

«Sì, come a tutti i mezzi calvi che fanno di tutto per nasconderlo.»

«Ha idea di dove sia adesso Fortier?»

Scosse la testa.

«Conosce nessun Saint-Jacques?»

«No.»

«E Tanguay?»

«Nome da checca.»

La testa mi martellava e in gola il bruciore era quasi insopportabile. Gli lasciai il mio biglietto da visita.

 

38

 

Ryan mi aspettava imbufalito davanti alla porta di casa. Non perse tempo in preamboli.

«Inutile sperare di farsi capire anche solo una volta, giusto? Lei è come quegli indiani che ballano la Danza degli Spiriti e poi si credono invulnerabili.»

Era paonazzo e una piccola vena gli pulsava all'altezza della tempia. Forse non era il caso di ribattere.

«Di chi era la macchina?»

«Di una vicina.»

«E tutto questo le sembra molto divertente, vero, dottoressa?»

Non risposi. Il mal di testa non mi risparmiava e una tosse secca preannunciava già ospiti sgraditi nel mio sistema immunitario.

«Esiste una persona sulla faccia della terra in grado di farsi ascoltare da lei?»

«Posso offrirle un caffè?»

«Che cosa le fa pensare di poter uscire così, come niente fosse, lasciando una pattuglia a far la guardia ai muri, eh? La massima aspirazione di quei poveracci non è certo star qui a proteggerle le chiappe, cara signora Brennan. Perché non ha chiamato o non ha provato al mio cercapersone?»

«L'ho fatto.»

«E non poteva aspettare dieci minuti?»

«Non sapevo dov'era né per quanto ne avrebbe avuto. In compenso sapevo che io non ci avrei messo molto. E infatti...»

«Poteva almeno lasciare un messaggio.»

«Se avessi potuto immaginare la sua reazione isterica le avrei lasciato anche Guerra e pace, mi creda.» Non era vero.

«Reazione isterica?» La sua voce si fece di ghiaccio. «Lasci che le spieghi meglio, allora. Sei, forse otto donne di questa città sono state brutalmente assassinate e seviziate. L'ultima non più tardi di quattro settimane fa.» Ripassava la scaletta degli argomenti toccandosi la punta delle dita. «Una delle vittime ha fatto parziale comparsa nel suo giardino. Nell'album dei ricordi di un pazzo che ci è sfuggito c'era una sua foto. Un solitario dalle abitudini un po' strane che fa collezione di coltelli e materiale pornografico, frequenta prostitue e si diverte a tagliuzzare animaletti innocenti le lascia un messaggio vuoto sulla segreteria telefonica. In precedenza ha molestato la sua migliore amica, morta assassinata e sepolta con una foto sua e di sua figlia. Anche il nostro secondo simpaticone si è dato alla macchia.»

In quel momento una coppia transitò davanti a noi sul marciapiede, occhi bassi e passo svelto, imbarazzati di aver colto due amanti nel pieno di un litigio.

«Perché non entra, Ryan? Le faccio un caffè.» Avevo la voce rauca e parlare cominciava a essere un'attività dolorosa.

Sollevò una mano in un gesto esasperato, quindi la lasciò ricadere lungo il fianco. Restituii le chiavi alla mia vicina, la ringraziai per avermi prestato la macchina e aprii la porta.

«Decaffeinato o vero?»

In quel preciso istante il suo cercapersone si mise a suonare, facendoci trasalire senza ritegno.

«Ho capito, meglio un decaffeinato. Il telefono sa dov'è.»

Attraverso la falsa cortina del tintinnio delle tazze cercai di origliare la conversazione.

«Ryan.» Pausa. «Sì.» Pausa. «Oh, cazzo.» Lunga pausa. «Quando?» Pausa. «D'accordo, grazie. Arrivo subito.»

Sulla soglia della cucina si fermò, il volto teso. Immediatamente sentii impennarsi la pressione sanguigna, le pulsazioni e la temperatura corporea. Stai calma. Versai due tazze di caffè, sforzandomi di controllare il tremito della mano. Perché se ne stava zitto?

«L'hanno beccato.»

Polso paralizzato a mezz'aria.

«Tanguay?»

Annuì. Riappoggiai la caraffa sulla sua base termica. Calma. Tirai fuori il latte, ne lasciai cadere due gocce nella mia tazza, quindi lo offrii a Ryan. Tranquilla. Lui scosse la testa. Rimisi il cartone in frigorifero. Piano. Una sorsata. Okay. Adesso puoi parlare.

«Mi racconti.»

«Andiamo a sederci.»

Passammo in soggiorno.

«Lo hanno arrestato circa due ore fa a bordo di un'auto sulla 417, mentre viaggiava in direzione est. Una volante dell'SQ ha riconosciuto la targa e lo ha fermato.»

«Siamo sicuri che si tratta proprio di Tanguay?»

«È lui. Abbiamo la conferma delle impronte.»

«Ed era diretto a Montréal?»

«A quanto pare.»

«Con quale capo d'accusa è stato arrestato?»

«Detenzione di alcoolici. Guidava con una bottiglia di Jim Beam aperta sul sedile posteriore. Gli hanno anche confiscato alcune riviste soft porno. Lui crede sia per quello, e intanto lo lasciano lì a sudare per un po'.»

«Dov'era?»

«Sostiene di avere una casetta di legno sulle rive del Gatineau, un lascito paterno. Era andato a pescare. Quelli della Scientifica si stanno già precipitando sul posto.»

«E adesso?»

«È al Parthenais.»

«Lei ha intenzione di raggiungerlo?»

«Sì.» Inspirò profondamente, come preparandosi ad affrontare un attacco, ma io non avevo nessuna voglia di trovarmi faccia a faccia con Tanguay.

«Bene.» Mi sentivo la bocca asciutta e avevo una specie di debolezza diffusa in tutto il corpo. Tranquillità? Non sapevo nemmeno più cosa significasse quella parola.

«Katy sta venendo qui», dissi infine, esplodendo in una risata nervosa. «Ecco perché... perché stasera sono uscita.»

«Katy nel senso di sua figlia?»

Annuii.

«Pessimo momento per una visita di piacere.»

«Pensavo di poter scoprire qualcosa e... be', non importa.»

Restammo qualche secondo in silenzio.

«Sono contento che sia finita.» Ogni rabbia era scomparsa dalla sua voce. Si alzò. «Le va se ripasso di qui dopo che gli avrò parlato? La avviso solo che potrei fare molto tardi.»

Male come stavo, non avevo nessuna speranza di addormentarmi prima di aver ricevuto notizie. Chi era Tanguay? Che cosa avrebbero trovato nella casa sul fiume? Era lì che aveva ucciso Gabby? E Isabelle Gagnon? E Grace Damas? O ce le portava soltanto a cose fatte, per macellarle e confezionare i suoi sacchi?

«Mi farebbe piacere.»

Solo dopo che se ne fu andato mi venne in mente che avevo scordato di riferirgli dei guanti. Riprovai con Pete. Ormai Tanguay si trovava in stato di arresto, ma l'ansia per Katy non era scemata. Per il momento non volevo assolutamente che si avvicinasse a Montréal. Piuttosto l'avrei raggiunta io da qualche parte.

Questa volta lo trovai. Katy era passata da lui ed era ripartita alcuni giorni prima, raccontandogli che l'idea del viaggio era stata mia. Vero. E che i suoi programmi avevano la mia benedizione. Mica tanto. Pete non ricordava di preciso quale fosse il suo itinerario. Tipico. Viaggiava con dei compagni dell'università, erano diretti nel District of Columbia dai genitori di qualcuno e poi a New York a casa di qualcun altro. Successivamente sarebbe venuta a Montréal. Per lui andava bene. Di sicuro mi avrebbe chiamato.

Fui lì lì per dirgli di Gabby e degli ultimi avvenimenti che avevano sconvolto la mia vita, ma poi mi trattenni. Non ne ero capace. Non ancora. Pazienza. Tanto ormai era tutto finito. Come al solito lui doveva scappare a preparare un'udienza per il mattino dopo. Sono desolato, ma proprio non posso stare al telefono. Insomma, niente di nuovo.

Dal canto mio ero troppo esausta e malconcia anche solo per pensare di farmi un bagno. Per qualche ora rimasi seduta, avvolta in una coperta, tremando come una foglia e fissando il camino spento, rimpiangendo l'assenza di qualcuno che mi preparasse un brodino caldo e mi accarezzasse la fronte dicendomi che presto mi sarei sentita meglio. Continuavo ad appisolarmi e a svegliarmi, scivolando dentro e fuori dai sogni, mentre un esercito di microscopici essermi insisteva a moltiplicarsi nel mio sangue.

Ryan citofonò all'una e un quarto.

«Santo cielo, Brennan, ma ha un aspetto terribile.»

«Grazie.» Mi riawolsi nella coperta. «Forse mi sta venendo un raffreddore.»

«Perché non rimandiamo a domani?»

«Non ci penso neanche.»

Mi lanciò un'occhiata perplessa, poi mi seguì rassegnato, buttò la giacca sul divano e sedette.

«Si chiama Jean-Pierre Tanguay. Ventotto anni. Un tipo qualunque. È cresciuto a Shawinigan, non è mai stato sposato e non ha figli, però ha una sorella in Arkansas. La madre morì quando aveva nove anni. Situazione famigliare difficile. Il padre, un muratore, in pratica tirò su i due figli da solo. Morì in un incidente stradale quando Tanguay era al college. Evidentemente la prese molto male, perché piantò la scuola e per un po' si trasferì a casa della sorella, quindi si mise a girare per gli Stati Uniti. E qui arriva il bello. Mentre si trova a Dixie riceve la chiamata del Signore, così prova a entrare dai gesuiti, ma il colloquio va male. Forse pensarono che non aveva una personalità esattamente pretesca. Nel 1988 torna in Québec e riesce a farsi riammettere alla Bishops. Un anno e mezzo dopo dà la tesi.»

«Insomma, in poche parole è in circolazione dal 1988?»

«Esatto.»

«Il che significa che ai tempi degli omicidi Pitre e Gautier stava già qui.»

Ryan annuì. «E da allora non si è più mosso.»

Deglutii.

«E gli animali come li giustifica?»

«Insegna biologia, abbiamo già controllato. Dice che è materiale di esercitazione per le sue classi. Fa bollire le carcasse e monta gli scheletri.»

«Il che spiegherebbe anche la biblioteca di anatomia.»

«Probabile.»

«Sì, ma in che modo se li procura?»

«Li raccatta già morti ai bordi delle strade.»

«Oh, Cristo. Bertrand aveva ragione.» Lo immaginai aggirarsi furtivo di notte, raccogliendo cadaverini e portandoseli a casa nei sacchetti di plastica della spesa.

«Ha mai lavorato in una macelleria?»

«Di questo non ha parlato. Perché?»

«E Claudel che cosa ha scoperto dai suoi colleghi?»

«Niente che già non sapessimo. Un tipo introverso. Arriva, fa lezione, nessuno lo conosce davvero. Comunque non erano particolarmente contenti di ricevere una telefonata dalla polizia in piena notte.»

«Il profilo fatto dalla nonna calza, insomma.»

«La sorella dice che è sempre stato molto schivo. Non le viene in mente un solo amico, ma ha anche nove anni più di lui e i ricordi d'infanzia che lo riguardano sono pochi. In compenso ci ha regalato una chicca.»

«E cioè?»

Sorrise. «Tanguay è impotente.»

«Una confessione spontanea?»

«Pensava che potesse aiutarci a spiegare le sue tendenze antisociali. Dice che è un ragazzo innocuo e che soffre solo di una profonda mancanza di autostima. È una appassionata di psicologia fai-da-te, una che conosce il gergo.»

Non risposi. Davanti a me rivedevo due righe estratte da altrettanti referti d'autopsia.

«La cosa ha senso. Sia la Adkins che la Morisette-Champoux sono risultate negative alla ricerca di sperma.»

«Tombola!»

«Ma come è diventato impotente?»

«Una combinazione di fattori congeniti e traumatici. È nato con un testicolo solo, e se l'è giocato in una partita di calcio. Una storia assurda. Pare che un compagno di squadra avesse in tasca una penna e che Tanguay si sia fatto male cadendoci sopra. Addio spermatogenesi.»

«E questo sarebbe il motivo del suo eremitaggio?»

«Perché no? Forse la sorella ha ragione.»

«Be', questo potrebbe spiegare la mancanza di eccitazione con le ragazze.» Stavo pensando ai commenti di Jewel. E a Julie. «Con loro e con tutte.»

«Sì, ma non è strano che si sia messo proprio a insegnare?» ragionò Ryan. «Perché sceglierti un mestiere dove sei costretto a interagire con un mucchio di gente? Se davvero ti senti così inadeguato perché non cerchi una cosa meno minacciosa, più riservata? Un lavoro al computer? O in un laboratorio?»

«Non sono una psicologa, ma credo che invece l'insegnamento possa essere perfetto. In realtà le persone con cui interagisci non sono mai tue pari. Non sono adulti, ma ragazzi o bambini. Il più forte sei tu. Sei tu ad avere la responsabilità e il potere. La classe è il tuo piccolo regno e i tuoi allievi devono stare ai tuoi ordini. Nessuno può metterti in dubbio o in ridicolo.»

«Be', almeno non apertamente.»

«Ma sì, potrebbe davvero essere un buon modo per recuperare equilibrio e soddisfare il bisogno quotidiano di controllo e potere, mentre di notte continua ad alimentare le sue fantasie sessuali. E sto parlando dello scenario più ottimistico», aggiunsi. «Pensi a quante occasioni per soddisfare il suo voyeurismo, quando non addirittura il desiderio di contatto fisico con i ragazzi.»

«Già.»

Per un attimo restammo in silenzio, mentre Ryan si guardava intorno. Anche lui aveva l'aria distrutta.

«Immagino non ci sia più bisogno di sorveglianza», dissi.

«Infatti.» Si alzò.

Lo accompagnai alla porta.

«Ma lei cosa ne pensa, sinceramente?»

Non mi rispose subito. E, quando lo fece, scelse accuratamente le parole.

«Si proclama innocente come Heidi, ma è più nervoso di un diavolo. Secondo me nasconde qualcosa. Domani sapremo cosa c'è nella sua casetta sul fiume, e con le prove che troveremo lo inchioderemo. Dovrà confessare.»

Quando se ne fu andato buttai giù due belle pastiglie contro il raffreddore e per la prima volta in settimane dormii come un sasso. Se sognai, non ricordo.

Il giorno dopo mi sentivo meglio, ma non abbastanza da andare in laboratorio. Forse era solo resistenza psicologica, ma alla fine me ne restai a casa. Birdie era l'unica compagnia di cui avessi voglia.

Mi tenni impegnata leggendo la tesi di uno studente ed evadendo parte della corrispondenza che da settimane ormai ignoravo. Ryan telefonò verso l'una, mentre stavo scaricando la lava-asciuga. Dalla sua voce capii subito che le cose non andavano per il verso giusto.

«La Scientifica ha rivoltato la casa da cima a fondo senza trovare uno spillo. Non un indizio compromettente. Niente coltelli, niente armi, niente filmini degli omicidi. Non uno dei souvenir di cui parlava Dobzhansky. Nessun vestito, cranio, gioiello o pezzo di cadavere. Solo uno scoiattolo morto in frigorifero. Tutto qui.»

«Segni di scavi recenti intorno alla casa?»

«Nessuno.»

«E non c'era nemmeno un capanno degli attrezzi o un seminterrato con una sega o lame di qualche genere?»

«Rastrelli, zappe, casse di legno, una vecchia motosega, una carriola rotta. I soliti attrezzi da giardinaggio. E una popolazione di ragni degna di un piccolo pianeta. A quanto pare il signor Gilbert ha solo bisogno di un po' di psicoterapia.»

«Non avete trovato nicchie nascoste?»

«Brennan, lei non mi ascolta.»

«Luminolo?» tentai ancora, ormai depressa.

«Tutto pulito.»

«Ritagli di giornale?»

«No.»

«Insomma, niente in grado di collegare in qualche modo questo posto alla tana di Rue Berger?»

«Niente.»

«A Saint-Jacques?»

«No.»

«A Gabby?»

«No.»